

I racconti che ogni anno vengono pubblicati nelle antologie Lingua Madre dimostrano che attraverso la scrittura, le donne hanno imparato a dare corpo e senso al silenzio in cui da sempre sono state costrette, trasformandolo in metafora, in elemento significante di confronto e rapporto con le altre e gli altri. Scrivere diventa tanto – e a volte più – importante e necessario dei beni primari. «Da dove vengo io, è così difficile soddisfare il proprio corpo, tanto che spesso ci si rinuncia e si pensa solo all’anima» scrive Indira Barroso Lopez in Alla mia amica immaginaria, Lingua Madre Duemiladieci. Da qui trae forza la scrittura delle donne. Tra le autrici c’è chi si avvicina per la prima volta alla scrittura, ma anche chi proprio da questa esperienza inizia poi la sua carriera di scrittrice come nel caso di Cristina Ubah Ali Farah, Gabriella Kuruvilla, Laila Wadia, Claudiléia Lemes Dias, Candelaria Romero, Anna Belozorovich, Rosana Crispim da Costa, Blanca Marina Ratner, Michaela Šebőková e tante altre. Condividendo esperienze, ricordi, emozioni, le autrici profilano realtà comuni a tutte/i e tracciano forme di ripensamento del vivere associato. La migrazione non è più un semplice sfondo per le storie, bensì influisce sulle trame e sui personaggi, o meglio sulle personagge (per usare un termine d’impronta sessuata scaturito dal lavoro della Società italiana delle Letterate), generando traiettorie narrative del tutto nuove e mettendo in scena figure diversamente epiche. Non è forse epica Tanya «povera, ma felice e tranquilla» in Bielorussia che «fu caricata di forza su un furgone, drogata, stuprata più volte e venduta come una mucca da macello.»? Nel vivere «la morte della sua identità» – come scrive Narcissa V.Ewans in L’usignolo nel frutteto di ciliegie non cinguetta più, Lingua Madre Duemilaventi – incarna tutti i rischi cui sono soggette le donne migranti: lo sfruttamento sessuale, la tratta, le violenze. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni l’80% delle donne nigeriane in Italia sono state vittime di traffico di esseri umani. «Queste donne scappano dalle violenze nel loro paese, continuano a subirne durante il viaggio verso la Libia, dove una volta arrivate hanno buone possibilità di essere torturate e violentate. Se riescono a raggiungere l’Italia o l’Europa, continuano a essere a forte rischio di tratta», spiega Marcella Rodino dell’Ufficio Pastorale Migranti di Torino. La violenza è costante, variabile ne è la forma. Scrivono Tahmina Akter e Alice Franceschini in Vulnerabile, Lingua Madre Duemilaventi: «Davanti ai miei occhi sono stati uccisi i miei genitori e il mio unico fratello più piccolo. Li hanno sgozzati. […] Con terrore, fatica e indicibile dolore ho deciso di lasciare il mio paese. […] A un certo punto – era buio, il camion era fermo – il mio timore è diventato realtà. In silenzio qualcuno è salito sul mio corpo per mangiarselo. Mi hanno violentata in tanti, uno dietro l’altro, per tanto tempo. Non sono riuscita a difendermi da sola. Poi, col succedersi dei giorni e delle settimane, ho finito per abituarmi: il viaggio è durato sei mesi. Sono rimasta incinta di uno sconosciuto. Di tanti sconosciuti. Di tanti colori diversi. Non so chi sia il padre del mio bambino. Chi può contarli, i padri del mio bambino?». Narrazioni di esilio dove le parole eroina, impresa, coraggio assumono un diverso significato, come sempre avviene quando entra in gioco la differenza sessuale. Diversamente epiche, appunto, secondo la felice definizione di Laura Fortini, che non riconduce alle gesta guerriere della tradizione patriarcale ma piuttosto attribuisce valore e significato all’esperienza delle donne. L’importanza non si esaurisce nel racconto, ma nella verità trasmessa a un pensiero collettivo e condiviso. Le donne si confermano essere non solo quell’anello forte tra passato e futuro celebrato da Nuto Revelli, quanto coloro le quali tengono strenuamente la trama delle relazioni, dei legami (antichi e nuovi), mosse dalla speranza e da quella forza irrinunciabile del desiderio che le spinge verso ciò che sembra impossibile ottenere, come ci insegna Luisa Muraro, e che conduce a una nuova concezione del modo di affrontare la vita e di viverne gli eventi. Procreare la vita si oppone a filosofare la morte, come titola il bel libro di Aida Ribero, e ne rovescia le prospettive. Lo spiegano bene Berivan Görmez e Alessandra Nucci in I regni di Berivan, Lingua Madre Duemilaventi: «Ci hanno portati via la mattina presto, mancavano poche ore allo spettacolo. […] Vivevo in Olanda, sapevo soltanto il curdo e l’olandese. Forse era in turco che mi chiedeva di andare con lei, senza manette, uno dei privilegi riservati ai bambini. […] Un giorno sono arrivati di nuovo e ci hanno detto che era il momento di tornare al nostro Paese. Il mio Paese? Non era l’Olanda? No, il mio Paese era quello dei miei genitori, un posto che non conoscevo e in cui non stavo tornando. Ci stavo andando per la prima volta. […] Il mio primo giorno di scuola in Italia non sapevo dire quasi niente. Non capivo quello dicevano i miei compagni, ma le loro strette di mano mi sembravano così fredde. […] Mi facevano sentire sporca.[…] Avete presente quando volete fare i popcorn? Mettete tanti chicchi tutti insieme nella padella, ma non esplodono tutti nello stesso momento. Anche io sto ancora aspettando il momento giusto. […] Mi ci sono voluti molti anni per liberarmi da quel peso, ma adesso che sono una donna ho capito che le mani di una bestia non rendono tutti gli altri un branco indiscriminato. Di tutte le volte che sono stata costretta a rinascere, questa è stata la più tenera e la più bella. Non ero più una preda, ero stata finalmente sfiorata con gentilezza».
Il Concorso letterario nazionale “Lingua Madre” compie vent’anni
Ideato nel 2005 da Daniela Finocchi, vuole essere un luogo di espressione e rappresentazione del sé e creare occasioni di scambio, incontro, conoscenza. Grazie alla ventennale partecipazione di oltre diecimila autrici, da sempre celebra la capacità femminile di – come scrive l’autrice Chiamaka Sandra Madu – «modificare, cambiare e, come l’oceano, muovere ciò che si crede non possa essere spostato». Non a caso, dal 2023 il sottotitolo dell’antologia è diventato Racconti di donne non più straniere in Italia, per sottolineare con quel “non più” la costante pratica di relazione e il cambiamento avvenuto nel tempo. A scrivere sono donne migranti, le loro figlie e tutte coloro che si riconoscono in appartenenze multiple, ma anche le italiane che pur non avendo origini straniere vogliano mettersi in relazione. In sintesi, donne che vivono in Italia e vogliono utilizzare – o reinventare – la lingua italiana al fine di approfondire il rapporto tra identità, radici e mondo “altro”. I racconti raccolti nelle antologie Lingua Madre(Edizioni SEB27) coniugano immaginari e nuove sensibilità, immediatezza, autenticità e riflessioni profonde. A unire le protagoniste è il loro sguardo al mondo e l’autorità femminile che da questo sguardo emerge. La migrazione, vissuta o solamente reinterpretata, non è qualcosa che le definisce, ma un approccio inedito alla complessità. Sono donne consapevoli, determinate, che pensano attraverso i loro corpi e perseguono il diritto a vivere pienamente la propria appartenenza femminile. La propria libertà. La forza motrice può essere rappresentata da una fotografia, ma anche dal cibo, dall’arte, da un incontro, dalla lingua o dall’uso dell’ironia.