Nutrimento e nutrimenti
Percorsi di lettura tra le antologie di “Lingua Madre”
di Daniela Finocchi

Nei racconti che ogni anno sono pubblicati nelle antologie Lingua Madre, emerge con forza il legame tra le donne e la terra, un’interconnessione profonda tra la natura e i vissuti rappresentati, tra il mondo umano e quello non-umano, tra il sé e l’altra/o da sé. La scrittura diviene depositaria di buone pratiche, di ciò che la filosofa femminista Marylin Frye chiama “percezione amorosa”. Ed è amoroso lo sguardo di Elisa Muscarello, giovane autrice italo-vietnamita, quando viaggia alla scoperta della sua “mezza luna”, metafora della terra materna (La terra materna, Lingua Madre Duemilaventuno). Così come amoroso è lo sguardo di Laila Wadia, consapevole del suo essere tramite, “corpo-mondo” per il suo bambino e che – interrogata al corso preparto dall’ostetrica sulla lingua con la quale si rivolgerà al figlio, risponde – «Nella lingua dell’amore» (Ascoltare il silenzio, Lingua Madre Duemiladodici). La stessa lingua ricevuta a sua volta dalla madre e trasmessa con il latte, impregnato di versi e poesie indiane. In questa catena di rimandi la soggettività femminile prende corpo e si genera. Un processo ancora più necessario per le donne migranti, per le quali il diritto ad aver voce, corpo, ad esistere è tutto da riconquistare. Non è quindi casuale che il cibo compaia spesso come tema conduttore o nel ruolo di protagonista nei racconti, perché la conoscenza della natura, delle pratiche di cura e di nutrimento appartiene alle donne ed ha aiutato da sempre il genere umano a sostenersi in ogni angolo della terra. Il cibo occupa un ruolo centrale anche in quanto veicolo di conoscenza, tradizioni, contenuti affettivi, spirituali, tanto da trasformare la nonna che impastava il pane, tra sbuffi di farina, in una fata agli occhi di Ramona Hanachiuc bambina nel suo Magie del passato (Lingua Madre Duemilaventiquattro). Come la madelaine di proustiana memoria, in queste narrazioni i sapori riportano indietro: ai ricordi, all’odore delle domeniche. Danno alle autrici le parole per fare ordine simbolico, come in Parole sospese sulla neve di Melita Ferkovic in cui gli elementi naturali, i luoghi dell’infanzia, le pietanze diventano pre-testo per far affiorare memorie giovanili, commossi ricordi quotidiani che scandiscono la crescita del rapporto madre-figlia (Lingua Madre Duemiladiciotto). Il cibo può essere più potente delle parole. Così potente da sostituire tutti i baci mai ricevuti, testimoniando i legami più profondi. Corina Ardelean, non senza ironia, conduce il pubblico a riflettere sui piccoli rituali culinari, capaci di rivelare sentimenti ed emozioni: un’altra forma di amore (L’altra forma dell’amore, Lingua Madre Duemilaventi). Le descrizioni dei piatti e della loro preparazione rievocano l’intimità della cucina e delle relazioni familiari che da essa derivano. Il cibo aiuta a ripercorrere le tappe della memoria, siano esse brevi ricordi vissuti tra le mura domestiche o episodi di storia del paese d’origine. Le storie si fondono l’un l’altra, trasformando i pensieri delle donne in una sorta di stratificazione culturale che è risultato di contatti, prestiti, cessioni, influenze. Il nutrimento è parte fondante dell’identità e dice loro chi sono. Per questo Il profumo della domenica per Michaela Šebőková non è quello delle lasagne ma del brodo di carne e solo sentendosi riconosciuta nel rapporto con un’altra donna straniera potrà cominciare ad apprezzare il valore della differenza di cui è portatrice (Lingua Madre Duemiladodici). In Racconti congelati di Leyla Khalil, i kebbeh nel freezer rappresentano addirittura un legame d’amore indissolubile: «Ricordi congelati. Tutto questo e solo questo rimane di te […] Apro il freezer, prendo un kebbeh, ne tasto la sfericità. Non ho il coraggio di mangiarlo, basta l’odore a tuffarmi di nuovo in antiche corse sotto al sole ad acchiappare le code dei gatti a Zouk e poi correre in spiaggia. […] gli spaghetti nella scansia non sanno chi tu sia stata, ma questi kebbeh sì, ne hanno chiara memoria, sono figli delle tue mani pazienti ed è mio compito tradurre fino in fondo questi ricordi. Guardo la sfera di grano e carne e all’improvviso so che, finché non racconterò la tua scomparsa in un’unica lingua, la tua figura rimarrà in bilico fra due mondi» (Lingua Madre Duemilaquindici). Un vincolo, invece, per Veronica Orfalian, dove le radici della piantina di menta, migrata insieme all’ormai anziana Manik, si sono abituate alla nuova terra dove sono state annaffiate di «speranza e gioia» come i suoi figli, per trasformarsi in un forte arbusto – metafora vivente – che fornirà foglie per il tè anno dopo anno, generazione dopo generazione (Ricordi alla menta, Lingua Madre Duemiladieci). I lasciti non sono solo materiali, sono anche impalpabili, spirituali e toccano le corde dell’anima. Il patrimonio di profumi e sapori di una vita diventa così eredità preziosa nell’evocare fiori di melo o pere mature, zuppa di pomodoro o castagne bollite, funghi o mele cotogne cotte sulla stufa. Ricette di cui Anreea Luminita Dragomir fa dono alla sua amica scomparsa, tra poesie, favole, canzoni che «nei labirinti deliranti e fantasiosi della memoria di nonne, madri, figlie, nipoti e bisnipoti rimarranno per sempre un mistero» (Un lascito, Lingua Madre Duemiladiciannove). Viene messo a tema anche un pensiero post-patriarcale attraverso narrazioni che ricostruiscono un dibattito in corso e presentano voci tra le più originali e interessanti della cultura contemporanea, come nel caso di Huỳnh Ngọc Nga e Sandra Scagliotti: «Già, mogli e madri non hanno tempo per la poesia. E nemmeno per sé, trovano tempo. Ma lo sai quanto tempo sprechiamo noi donne ad apparecchiare, sparecchiare, cucinare, rigovernare, pulire? Se avessimo spostato mattoni avremmo costruito cattedrali, ti rendi conto? E almeno godremmo della riconoscenza dei posteri. Invece no, tutto è dovuto. Non si è costruito un bel niente e domani ci tocca di ricominciare. E poi tu dici che sei felice… Qui c’è motivo d’essere almeno depresse, del resto, non mi hai insegnato che voi in Viet-Nam chiamate la cucina il “regno della dea sfortunata”?» (Il regno della dea sfortunata, Lingua Madre Duemilasei). Le autrici testimoniano come l’oblio della nostra dipendenza dall’aria, dall’acqua e dall’amore abbia origine nel disprezzo dell’opera femminile di mettere al mondo e di provvedere quotidianamente ai bisogni materiali e affettivi della vita. Questa è la storia vivente che le migrazioni – dove la presenza femminile è oggi preponderante – pongono tutti i giorni sotto i nostri occhi ed è qualcosa di unico e di nuovo. Le donne fanno scaturire la luce del cambiamento dal cuore del presente, per agire in senso politico, per affermare l’importanza della relazione e dello scambio, nel rispetto delle differenze, e della differenza, come esprime efficacemente Lydia Keklikian: «Le persone devono interagire come gli ingredienti del tabboulé. Non devono sciogliersi le une nelle altre, non devono perdere la propria entità culturale, ma devono mantenere i loro diversi sapori, colori e consistenza, fare in modo di comporre una realtà colorata, vivace e appetitosa, che stuzzica il desiderio di ognuno di conoscersi a vicenda» (Tabboulè, Lingua Madre Duemilanove). Inoltre, non possiamo dimenticare un altro tipo di nutrimento, non oggettivamente legato ai generi alimentari ma altrettanto indispensabile: la fame di libertà, di dignità, di riscatto che con forza, speranza e fiducia muove le donne alla ricerca di un cambiamento per sé, per le proprie figlie e i propri figli. Voci che non vogliono e non devono essere mediate, interpretate, ma semplicemente ascoltate.

 

Il Concorso letterario nazionale “Lingua Madre” compie vent’anni

Ideato nel 2005 da Daniela Finocchi, vuole essere un luogo di espressione e rappresentazione del sé e creare occasioni di scambio, incontro, conoscenza. Grazie alla ventennale partecipazione di oltre diecimila autrici, da sempre celebra la capacità femminile di ­– come scrive l’autrice Chiamaka Sandra Madu – «modificare, cambiare e, come l’oceano, muovere ciò che si crede non possa essere spostato». Non a caso, dal 2023 il sottotitolo dell’antologia è diventato Racconti di donne non più straniere in Italia, per sottolineare con quel “non più” la costante pratica di relazione e il cambiamento avvenuto nel tempo. A scrivere sono donne migranti, le loro figlie e tutte coloro che si riconoscono in appartenenze multiple, ma anche le italiane che pur non avendo origini straniere vogliano mettersi in relazione. In sintesi, donne che vivono in Italia e vogliono utilizzare – o reinventare – la lingua italiana al fine di approfondire il rapporto tra identità, radici e mondo “altro”. I racconti raccolti nelle antologie Lingua Madre (Edizioni SEB27) coniugano immaginari e nuove sensibilità, immediatezza, autenticità e riflessioni profonde. A unire le protagoniste è il loro sguardo al mondo e l’autorità femminile che da questo sguardo emerge. La migrazione, vissuta o solamente reinterpretata, non è qualcosa che le definisce, ma un approccio inedito alla complessità. Sono donne consapevoli, determinate, che pensano attraverso i loro corpi e perseguono il diritto a vivere pienamente la propria appartenenza femminile. La propria libertà. La forza motrice può essere rappresentata da una fotografia, ma anche dal cibo, dall’arte, da un incontro, dalla lingua o dall’uso dell’ironia.