Catalogo - Scheda titolo

Paola Tarino, Adriano Boano
Visto per censura

Clementina Perone e Aurora Benna. Il Novecento nella storia di due donne

Allegato CD-ROM con documenti e testimonianze

Edizioni SEB27
Laissez-passer - 4
ISSN 1973-0101
Formato: 14x21
Pagine: 400
Anno: 2004
ISBN: 88-86618-42-5
Prezzo: €15,00

Interrogare gli eventi del Novecento. È forse un saggio storico? Sono due le protagoniste: «Affiorano dietro le spalle tracce delle nostre fabbriche occupate, risoluzioni politiche, rivolte torinesi, Resistenza, attività intellettuali, persecuzioni ideologiche…». Il collettivo col tempo diventa figura singola, o al massimo una staffetta di "pasionarie". Superare i trabocchetti del Novecento. È forse un manuale di sopravvivenza? Due sono le superstiti: «Condannata dal tribunale fascista, mi sono salvata… e anche la mamma è scampata al GULag». Raccontare la Storia del Novecento a due voci. È forse un romanzo del reale? Sono due le attrici: «Ipnotizzata da un ramarro, ho rivisitato i casi della mia vita… mentre la mamma incastonava i tasselli del suo esilio politico nel giardino dei ciliegi». Archiviare i repertori del Novecento. È forse un catalogo di collezioni? Due sono le depositarie: «Ho raccolto le preziose immagini della mia Unione Sovietica perché Aurora, mia figlia, sapevo che le avrebbe conservate… anche se in disordine; qualcun altro, ereditandole, le classificherà». Porzioni di epistole strappate all’oblio dei “ghiacci” in cui si congelano le esistenze romanzate dal recupero calligrafico di una memoria affascinata dalle storie. Visto per censura: timbri di due vite parallele, talvolta illeggibili, ogni tanto si intrecciano, quasi mai si sovrappongono.
 
• L’operaia torinese ritrovò la "buona salute" nel Gulag [Giorgio Boatti, “Tuttolibri”, 15 gennaio 2005] Una geometrica simmetria scandisce l'incredibile e drammatica storia di Clementina Perone, impiegata torinese catapultata dalla militanza comunista dalla città natale a Mosca. E da qui sin nei più feroci gulag siberiani, da dove è tra i pochi a tornare, in un percorso che la riporta prima a Mosca e poi nella città d'origine. L'intelligente e passionale collaboratrice de «L'Ordine Nuovo» di Gramsci, l'ex operaia che negli anni ruggenti degli scontri armati con le formazioni squadriste è abituata a nascondere un revolver nell'elegante chignon, trascorre complessivamente trentaquattro anni della sua vita a Torino: dalla nascita, avvenuta nel 1894, sino al 1923, data della sua partenza per l'Urss. E poi gli ultimi anni: vale a dire dall'agognatissimo ritorno da Mosca, concessole solo nel 1958, sino alla morte, avvenuta nel 1965. Ben trentaquattro anni saranno invece bruciati in Urss dove - dopo il fallimento del matrimonio con Angelo Benna, padre della sua primogenita Aurora, nata nell'agosto del 1917, nel bel mezzo della barricate della «rivolta del pane» - Clementina si trasferisce per sfuggire ai fascisti. Ma fondamentalmente, ignorando il disappunto del partito, per raggiungere a ogni costo il suo uomo. Vale a dire quel Nino Parodi, ex operaio specializzato della Fiat nonché leader dell'occupazione delle fabbriche del settembre del 1920, che l'ha preceduta in Urss per seguire i corsi della scuola quadri del Komintern. Parodi nel 1927 rientra clandestinamente in Italia dove verrà arrestato e trascorrerà lunghi anni in carcere, sino a diventare, trovata la libertà, un dirigente della resistenza in Liguria e quindi, dopo la Liberazione, un esponente di spicco del Pci. Nei lunghi anni trascorsi in Urss Clementina - ormai abbandonata da Parodi - s'aggrappa ad un'intensa corrispondenza con la figlia Aurora, abbandonata nel 1923 per seguire gli orizzonti della rivoluzione. Il destino di Aurora, ancora oggi vivacissima e attiva animatrice del circolo «Aurora» di Collegno, è analogo a quello di molti «figli di partito» di quegli anni. Nel corso della sua infanzia e adolescenza conosce assai poco la dolcezza degli affetti famigliari e sperimenta invece prima le durezze dell'orfanotrofio e poi la severità del collegio delle suore di clausura di via Cottolengo, da dove esce solo nel 1935, prossima a diplomarsi nelle scuole commerciali. E' impiegata da poco come aiutante sartina quando, nell'autunno del 1937, a San Dalmazzo di Tenda, in provincia di Cuneo, viene arrestata mentre cerca di espatriare. Munita di un passaporto falsificato fornitole dall'apparato del partito, Aurora stava cercando di raggiungere la madre a Mosca: il tentativo viene punito dal Tribunale Speciale fascista con una dura condanna, scontata nelle carceri di Perugia dove sono rinchiuse alcune delle più note militanti comuniste. Tra la giovane carcerata di Perugia e la madre, che nel frattempo viene arrestata e torturata nel corso di una delle più terribili «purghe» staliniste, inizia una faticosa corrispondenza. E' un dialogo a distanza: fragilissimo percorso di scoperta e avvicinamento e - al tempo stesso - obbligato gioco di omissioni, di rimozioni da parte della militante bolscevica che non parlerà mai esplicitamente della propria condizione di carcerata, di deportata. Ma utilizzerà sempre la metafora della «malattia» per la quale il sollecito sistema sovietico le starebbe impartendo le adeguate e prolungate cure necessarie a ritrovare la «buona salute». L'intrecciarsi di queste due parabole esistenziali - madre e figlia lontane migliaia di chilometri e, per un certo periodo, entrambe in carcere - è ricostruito con passione e rigore nel bel volume di Paola Tarino e Adriano Boano, Visto per censura. Clementina Perone e Aurora Benna. Il Novecento nella storia di due donne, pubblicato con un Cd-Rom allegato di ulteriori testimonianze e documenti, dalle edizioni Seb 27. Tutto quello che Aurora Benna conserva della madre - che reincontra solo nel gennaio del 1958, quando la vecchia militante a cui finalmente è stato concesso dalle autorità moscovite un visto per l'espatrio, atterra alla Malpensa, un distintivo di Lenin in smalto rosso bene in vista sul cappottone invernale - sta in una povera scatola di cartone. Da lì, quasi una scatola della memoria da cui via via si vanno ad alimentare le pagine di questo libro commovente e duro, escono i reperti di esistenze che sembrano giungere al limite di ogni possibile sofferenza, delle più intollerabili solitudini. Molti i momenti indimenticabili. Tra questi l'incontro, nella federazione torinese del Pci, tra Aurora e Palmiro Togliatti, il leader del Pci a cui l'ex collaboratrice de «L'Ordine Nuovo» si è invano rivolta epistolarmente, attraverso la figlia, per ottenere di lasciarsi alle spalle l'incubo della Russia staliniana. E' preciso il ricordo di Aurora: «Lui mi ha persin detto: "Oh, ti ho riconosciuta subito perché quando andavo a trovare tua mamma a Mosca aveva tutte le tue fotografie sul buffet...». E poi diceva: «Ma perché vuoi farla tornare? Ma se sta bene lassù!». Era certamente scomoda, anche per il gruppo dirigente del Pci, la terribile vicenda della Perrone che anche Parodi aiuterà solo tardivamente a tornare a casa. Una volta che Clementina giunge in Italia dall'Urss matura tra madre e figlia una drastica rottura («Tu - le dice Aurora - non sei tornata per me, sei tornata perché dovevi riavere il tuo posto nel partito»). Clementina conserverà il silenzio, sino alla morte, sulla terribile esperienza dei gulag. Altri tempi naturalmente.
 
• Tina, Aurora e il comunismo [Enrico Pugliese, “il manifesto”, 21 giugno 2005] La storia di due donne, madre e figlia, si intreccia con la grande storia del secolo scorso. Né il carcere fascista né il gulag staliniano piegano la loro passione politica per l'ideale. Una trentina di anni addietro Giuseppe Saragat, in una polemica con i suoi malfidi eredi all'interno del Psdi, usò nei loro confronti l'espressione: «Uomini che non hanno mai conosciuto il dolore». Quell'espressione - che evidentemente si riferiva al dolore della persecuzione fascista, della guerra e dell'esilio - a suo tempo mi colpì moltissimo e mi è tornata in mente di recente leggendo le storie di Clementina (Tina) Perone e Aurora Benna, madre e figlia, che di dolore ne hanno conosciuto tanto. E per Tina, il dolore più forte e più lungo - e anche il più taciuto - non è stato quello inflitto dalla repressione fascista ma quello conosciuto durante la detenzione nei Gulag staliniani e - dopo la liberazione e la riabilitazione - nel lungo periodo di angosciante dipendenza dalla macchina burocratica sovietica che per anni le impedì il ritorno in Italia. Eppure Tina - comunista della prima ora e con un passato bordighista che probabilmente fu all'origine della sua persecuzione negli anni dell'esilio in Urss - resta comunista fino alla morte, avvenuta nel 1965 dopo soli sette anni dal ritorno in Italia e a Torino, dove lavorerà per l'Associazione Italia-Urss. 35 anni di distacco Tra i dolori che questa donna ha conosciuto c'è il distacco forzato dalla figlia: un distacco durato dal 1923 al 1958 e che Aurora, lasciata bambina di sei anni e ritrovata donna adulta e matura, non perdonerà mai nel profondo alla madre. Già ottantenne, qualche anno addietro (proprio mentre era intenta a salvare i ricordi, le lettere e i pensieri di Tina), dice ai due intervistatori che chi si dedica completamente a una causa politica non dovrebbe avere famiglia. Questo dolore familiare, della bambina restata senza mamma, è vivo nella anziana attivista che pure di politica ne ha fatta tanta con grande rischio e costi personali. Negli stessi anni in cui la mamma è oggetto delle prime attenzioni della polizia staliniana - nella seconda metà degli anni Trenta - Aurora, poco più che ventenne, è condannata dalla sezione IV del tribunale speciale e passa anni di dura galera e di isolamento senza altra accusa che quella (vera) di aver tentanto di utilizzare un passaporto falso per emigrare in Francia (emigrazione che allora non costituiva reato). Ma la ferita dell'abbandono è viva anche nella madre che scrive per anni continuamente alla figlia bambina, adolescente, e adulta raccontandole, nei limiti permessi dal controllo poliziesco, ogni cosa della sua vita quotidiana, seguendone la maturazione, interrogandola, consigliandola, indirizzandole pensieri affettuosi. Le lettere di Tina in entrata e quelle di Aurora in uscita portano il timbro Visto per censura. E «Visto per censura» è il titolo del bel libro curato da Paola Tarino e Adriano Boano ed edito dalla casa editrice Seb27, basato principalmente su lunghe interviste ad Aurora Benna, materiale documentario vario e soprattutto, sulle lettere che madre e figlia si sono scambiate per circa trent'anni. Insieme ad altri ricordi e documenti (la sentenza di condanna del tribunale fascista, copie di verbali e relazioni della polizia, ecc.) esse costituiscono l'archivio personale di Aurora, contenuto in una grande scatola di flaconi di candeggina Ace («affinché tutto sia pulito fino a diventare trasparente», dice divertita l'anziana signora). Ma torniamo alle storie, a cominciare da quella della madre. Tina nasce nel 1894 da una famiglia di militanti rivoluzionari (suo nonno è anarchico). Comincia da subito a lavorare per le associazioni operaie. Conosce il marito Angelo Benna, il padre di Aurora, in un ballo al circolo socialista. Con orgoglio Aurora dice della madre che era «comunista da prima che il partito esistesse». E, a proposito del coraggio, riporta un ricordo di Giovanni (Nino) Parodi che le raccontava di Tina quando, in un momento duro e delicato dello scontro politico, nascondeva una pistola nello chignon in cui raccoglieva i capelli. Ma il coraggio non è la principale caratteristica (anche se la ha aiutata molto): Tina è una dirigente politica che da giovanissima lavora a fianco di Parodi (responsabile comunista della Fiat Centro), il quale diventerà il personaggio più di spicco dell'occupazione delle fabbriche a Torino nel 1920. Una foto lo ritrae seduto sulla poltrona di Giovanni Agnelli e attorniato da altri operai. Il rapporto politico tra i due diventa anche sentimentale e la loro convivenza ha inizio quando Tina si separa dal marito, Aurora ha ancora pochi mesi. Parodi fa da padre alla bambina nel breve e felice periodo di vita comune nella casa frequentata anche da Gramsci. Nonostante la tenerissima età, i ricordi di quel periodo da parte di Aurora sono vividi e lei mostra sempre affetto e nostalgia per quel padre adottivo: l'unica figura paterna che abbia mai avuto. Poi le vicende della vita (e della storia) separeranno i tre in maniera abbastanza tragica, soprattutto per le due donne. Nino Parodi fuggito in Unione sovietica dove svolge lavoro politico e segue corsi di formazione politica e militare - riceverà in seguito dal partito l'ordine di tornare per ricostituire il centro interno. Questo gli costerà l'arresto all'arrivo in Italia ma gli permetterà di scampare alle persecuzioni staliniane per i suoi trascorsi bordighisti. Alla fine, dopo la galera, Parodi continuerà la sua attività politica in Francia e in Italia e avrà un altra famiglia. Il biennio rosso Dopo la sconfitta seguita alla occupazione delle fabbriche, Tina è perseguitata insieme a Parodi e, come lui, dopo l'incendio della Camera del lavoro di Torino (vicino alla quale avevano abitato come famiglia), è costretta a espatriare in Francia per poi arrivare - dopo una sosta di dodici giorni a Berlino, in attesa del visto di ingresso in Unione sovietica - nella patria del socialismo, «dove splende il sol dell'avvenire» ma dove la attende un triste futuro. Dopo il primo periodo vissuto insieme a Parodi, comincia la vita marginale e pericolosa dei frequentatori del circolo degli emigranti, dove sospetti e delazioni sono all'ordine del giorno. E molti sono i compagni e i dirigenti comunisti emigrati in Russia che finiranno uccisi o deportati, le cui vicende si intrecciano con quelle di Tina e dei quali si parla nel libro. Dopo un primo arresto (e tortura) e una breve detenzione (dal febbraio al maggio del 1938), Tina Perone è nuovamente arrestata nel 1940, condannata e deportata a Karaganda (in Kazakhstan) con l'accusa di aver aiutato comunisti italiani sospetti. Al lager segue un periodo di confino per poi subire una nuova deportazione (a vita) nel Gulag di Igarka in Siberia (con l'accusa di propaganda antisovietica e sospetto spionaggio) dal quale sarà scarcerata nel 1954. Il carteggio - ricchissimo anche se la madre scriveva sempre molto più della figlia - si interrompe improvvisamente nel 1940. E quando nel 1948 Tina è temporaneamente liberata, non può neanche dire alla figlia i veri motivi del suo silenzio. Nelle sue lettere successive al 1948 parlerà di una «malattia». Poi c'è il nuovo arresto e la parte finale del carteggio, costituito soprattutto dalle lettere che la madre scrive dopo la liberazione definitiva. E qui l'aspetto che domina è l'attesa per il ricongiungimento, la speranza che qualcosa muova la persecutoria macchina burocratica sovietica (stalinista e post-stalinista), anche se il linguaggio è molto misurato. Alla fine della permanenza in Russia, trentasei anni dopo la partenza, la vecchia militante comunista è ancora indomita: mantiene la cittadinanza sovietica (anzi bolscevica, lei dice). Non ha vissuto i momenti peggiori della storia italiana del Novecento ma neanche quelli esaltanti della fine del fascismo, della resistenza, del passaggio alla repubblica, della riconquistata democrazia. Mentre il tempo di Tina si consumava nel grigiore del campo di detenzione e del Gulag, l'avventura drammatica, e a volte rocambolesca, di Aurora proseguiva. Già bambina, quando ancora la madre è libera e non perseguitata in Russia, è sballottata da un parente all'altro per poi finire in istituti pubblici o religiosi. Qui, contro ogni sua volontà, viene battezzata e, come forma ultima di oppressione, le cambiano anche il nome in Annamaria. Finisce anche in un istituto di suore di clausura dal quale evade grazie all'intervento di uno zio che la «rapisce» per un giorno in modo da causarne, in applicazione della regola dell'ordine, l'espulsione. Poi c'è il tentativo di espatrio in Francia con il passaporto falso e la vicenda dell'arresto e del processo. E qui la storia è paradossale perché Aurora, in quegli anni, non era stata una militante comunista: aveva solo avuto, in qualità di figlia di dirigenti comunisti, tramite il partito, un passaporto falso per l'espatrio. Avrebbe dovuto arrivare in Francia ma pedinata da agenti in borghese è fermata prima dell'arrivo alla stazione di Nizza. La storia si complica ulteriormente - e in maniera non chiarita nel libro, proprio perché ambigua in sé - per il ruolo della zia Emilia (sorella di Tina) che fu delatrice pagata dalla questura (e che probabilmente causò il fallimento del tentativo di espatrio) ma che fu anche inviata al confino insieme al suo amante e che Aurora, nonostante la definisca spesso la «zia strega», continuò a frequentare. D'altra parte, in quegli anni era difficile, per chi avesse a che fare con il partito comunista, capire di chi ci si poteva fidare. C'è un capitolo del libro intitolato «Non credere fintanto che non hai la conferma dai veri compagni». Si tratta di una frase strana contenuta in una lettera di Dante Corneli ad Aurora volta a smentire ipotetiche notizie riguardanti la eventuale morte della madre. Era difficile in quel clima individuare i «veri compagni». Comunque, scontata la galera («l'università» per lei, dove impara le lingue, così come la mamma le aveva imparate quindici anni prima a Mosca), Aurora passa un periodo in un tubercolosario e poi finalmente trova lavoro come impiegata. Come se ciò non bastasse, la sua casa è anche lesionata dai bombardamenti. Ma poi riprende a lavorare e collabora con la lotta partigiana. Sposa nel 1946 un operaio tedesco, Herbert, e negli anni Cinquanta diventa delegata sindacale della Cgil. Finalmente il passaporto Tina ottiene finalmente nel dicembre 1957 il passaporto che le permette il rientro in Italia il 7 gennaio del 1958, 36 anni dopo la partenza. Sul risvolto del cappotto porta con orgoglio il distintivo con la faccia di Lenin. Quelli che, come me, «non hanno conosciuto» il dolore hanno difficoltà a comprendere una storia del genere. Insomma perché, dopo tanta sofferenza non ha cambiato idea? Con la fine della guerra per Aurora, e con la scarcerazione e la riabilitazione dieci anni dopo per Tina, riprende un'esistenza normale dopo anni di incredibili avventure, persecuzioni e, appunto dolori. E qui vale la pena ricordare una citazione di Annie Vivanti, riportata dalla stessa Aurora, relativa al suo nome e riguardante il senso del «secolo breve». In francese aurora (aurore) ha lo stesso suono orrore (horreur): «Horreur, chez nous l'Aurore s'appelle aussi». Chi aveva dato nel 1917 - l'anno delle lotte per il pane a Torino ma anche l'anno della gloriosa rivoluzione di ottobre- alla bambina il nome Aurora, non si sarebbe aspettato nei decenni immediatamente successivi un futuro così pieno di orrori. Ma nelle dichiarazioni di Aurora e nella sua illustrazione - fatta con ironia, con nostalgia e a volte con rabbia - del contenuto disordinato del suo archivio Ace («perché tutto diventi trasparente») non c'è solo dolore. C'è tenacia, speranza di cambiamento, solidarietà, voglia di giustizia e di eguaglianza: insomma i valori del comunismo.

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